La circolazione extracorporea è una modalità di circolazione al di fuori dell’organismo che permette di convogliare il sangue verso una macchina definita macchina cuore-polmone. È utilizzata in tutte le operazioni cardiochirurgiche, tranne che per operazioni che riguardano le coronarie, per cui si può effettuare una chirurgia a cuore battente.

Attualmente la maggior parte delle operazioni cardiochirurgiche consistono in una chirurgia a cuore aperto, in cui il cuore deve essere fermo ed esangue.

Come è costituito il circuito della circolazione extracorporea

Il circuito della CEC è costituito da:

  1. Cannule venose cavali
  2. Una linea di drenaggio venoso
  3. Un recipiente di raccolta del sangue venoso, definito reservoir
  4. Il corpo di pompa
  5. Lo scambiatore di calore, altrimenti definito gruppo caldo-freddo
  6. Un ossigenatore
  7. Una linea arteriosa
  8. Una cannula arteriosa per la reinfusione del sangue in circolo (inserita il più delle volte a livello aortico, oppure a livello femorale o ascellare)

Come funziona la circolazione extracorporea

Il meccanismo alla base della CEC prevede il drenaggio delle vene cave e la reinfusione del sangue in un’arteria di grosso calibro, generalmente l’aorta, previo passaggio dello stesso in un’unità di pompa che simula l’attività cardiaca e un ossigenatore che simula la funzione polmonare.

Il tecnico perfusionista è l’addetto che si occupa della macchina cuore-polmone della CEC, e collabora con l’anestesista e il cardiochirurgo; la sua figura ha l’importante ruolo di:

  1. mantenere costante e su valori normali l’ossigeno nel sangue
  2. mantenere costante e su valori normali il pH sanguigno
  3. provvedere alla perfusione sistemica
  4. mantenere una corretta pressione arteriosa
  5. provvedere alla protezione miocardica

Pompe usate nella circolazione extracorporea

La CEC è costituita da 4 pompe o moduli di pompa:

  • pompa principale
  • pompa per l’infusione di soluzione cardioplegica
  • pompa per l’aspiratore da campo
  • pompa per il vent (costituita da cannule di drenaggio endocavitario)

A questo si aggiunge il GRUPPO CALDO-FREDDO, che permette di variare la temperatura sanguigna con meccanismo di scambio di calore. Il principio alla base del gruppo caldo-freddo deriva da una intuizione di Walton Lillehei che nel 1956 al fine della buona riuscita dell’operazione, durante la parte centrale dell’intervento, mandò il paziente in ipotermia immergendolo in vasche ripiene di ghiaccio.

Le pompe che possono essere utilizzate sono di due tipologie:

Pompa centrifuga

La pompa centrifuga è un tipo di pompa definita resistiva poiché reagisce a variazioni delle resistenze periferiche del paziente;

Pompa roller

Pompa Roller di De Backey, esempio di rotore
Pompa Roller di De Backey, esempio di rotore

Di gran lunga la più utilizzata, la pompa roller (dovuta a una intuizione del dr.Michael De Bakey) è un tipo di pompa definita non resistiva poiché il suo funzionamento non è correlato alle variazioni di resistenze periferiche del paziente.

La pompa centrifuga è strutturata con un circuito in entrata del sangue in verticale e uno in uscita in orizzontale. Questo fa si che ci sia una riduzione del rischio di emolisi per traumatismo delle emazie contro le parti rigide della pompa, anche grazie alla mancanza della compressione del tubo (caratteristica della pompa roller) e la riduzione del rischio di embolia gassosa (i gas volatili vanno verso l’alto e quindi sono impossibilitati a formare bolle nella parte a valle della pompa). Gli svantaggi, che hanno portato ad un sempre maggiore utilizzo delle pompe roller, sono:

  • La necessità di un flow meter (un flussimetro elettromagnetico) che regoli e mantenga costante il flusso sanguigno in entrata e in uscita, evitando fluttuazioni dello stesso
  • La possibilità che si venga a creare un flusso retrogrado al rallentamento o all’arresto della pompa
  • Un costo maggiore poiché la pompa centrifuga è uno strumento monouso

La pompa roller, inventata da Michael De Bakey nel 1934 e utilizzata nel 1937 per la prima volta da Gibbon, è costituita da tre parti principali:

  1. Lo statore, la parte fissa
  2. Il rotore, la parte mobile
  3. Il corpo di pompa, un tubo in PVC siliconato all’interno del quale fluisce il sangue in entrata e in uscita per mezzo del movimento circolare di spremitura del rotore

Sono strumenti semplici, affidabili e relativamente poco costosi, che generano una pressione negativa superiore a 200 mmHg, fatto che rende possibile una diretta misurazione del flusso. E’ in grado di assicurare una gittata di 8-10 l/min, che è determinata dal volume del corpo di pompa per il numero di giri. La pompa roller viene sottoposta periodicamente, di solito una volta a settimana, a taratura: l’operazione consiste nel settaggio, con utilizzo di soluzione fisiologica, delle distanze tra i rulli del rotore e lo statore per evitare una occlusione (simulando una condizione di stenosi aortica) o uno spazio troppo elevato che rende il movimento del rotore inefficace (simulando una condizione di insufficienza aortica). In genere, un errore umano del genere è correlabile maggiormente ad un’eccessiva pressione esercitata dal rotore sul corpo di pompa; questa eccessiva pressione può provocare emolisi che nel postoperatorio potrebbe addirittura esitare in un IRA.

Una questione attualmente ancora oggetto di dibattito è la modalità con cui il flusso deve essere restituito all’organismo e sulla relativa efficacia. Un flusso continuo garantirebbe un minor stress pressorio nei vasi in cui il sangue viene reimmesso, ma il rischio di fenomeni di coagulazione è aumentato; il flusso pulsato dovrebbe essere quello preferibile poiché simula il normale flusso sanguigno, ma lo stress pressorio cui sono sottoposti i vasi dove c’è reimmissione di sangue è aumentato.

struttura schematica di un ossigenatore per CEC
struttura schematica di un ossigenatore per CEC

L’ossigenatore e il gruppo caldo-freddo, definito anche scambiatore di calore, sono posti in serie all’interno del circuito della CEC: il sangue passa prima nel gruppo caldo-freddo e poi nell’ossigenatore.

Il gruppo caldo-freddo è utilizzato per indurre l’ipotermia a livello sistemico, così da ridurre gran parte delle funzioni metaboliche che prevedono l’utilizzo e l’aumento di richiesta di ossigeno e la conseguente produzione di cataboliti; inoltre mediante l’ipotermia viene aumentata la solubilità dei gas all’interno del sangue, così da permettere una maggiore efficienza del funzionamento dell’ossigenatore (motivo per cui lo scambiatore di calore è posto prima dell’ossigenatore); questo è però motivo di particolare attenzione nel momento del ripristino della normale temperatura corporea, poiché un ritorno alla temperatura normale non graduale e lento può facilmente provocare l’insorgenza di fenomeni embolici gassosi. In generale distinguiamo:

  1. Ipotermia LIEVE se la temperatura è compresa tra 30 e 28 °C
  2. Ipotermia MODERATA se la temperatura è compresa tra 28 e 24 °C
  3. Ipotermia PROFONDA se la temperatura è al di sotto dei 24 °C

Bisogna tener presente che il paziente in anestesia ha già una propria tendenza a ridurre la temperatura corporea; questa viene costantemente monitorata grazie a sonde termometriche a livello dell’epidermide, a livello rettale e a livello naso-faringeo.

L’ossigenatore

L’ossigenatore ha la funzione di sostituire l’attività polmonare, quindi fornisce ossigeno e rimuove anidride carbonica. E’ costituito da una membrana semipermeabile che separa due fasi: quella in cui è presente il sangue e l’altra in cui sono presenti i gas respiratori. Con il passare degli anni si sono succedute diverse tipologie di ossigenatori:

  1. 1939  –> OSSIGENATORE A DISCHI ROTANTI
  2. 1954  –> OSSIGENATORE A FIBRE CAVE
  3. 1955  –> OSSIGENATORE A BOLLE
  4. 1972  –> OSSIGENATORE A MEMBRANA DI SILICONE

In generale, l’ossigenatore è costituito da 3 parti fondamentali:

  1. Un recipiente di raccolta del sangue che funge da reservoir
  2. Uno scambiatore di calore
  3. Una sezione ossigenante

L’ossigenatore a dischi rotanti consiste in una serie di dischi coassiali che ruotano in modo tale che il sangue venoso viene distribuito sulla superficie di questi dischi in forma di pellicole per aumentare la superficie stessa di contatto con l’aria.

L’ossigenatore a fibre cave è costituito da fibre in PVC (polivinilcloruro) o PTFE (politetrafluoroetilene, detto anche goretex) cave all’interno e semipermeabili ai gas; inizialmente il sangue veniva fatto passare nella cavitazione e i gas al di fuori, ma le resistenze che si venivano a creare erano troppo elevate e per ovviare a questo era necessario l’utilizzo di una pompa dedicata posta subito prima dell’ossigenatore. Successivamente si pensò di invertire il passaggio dei due fluidi, quindi il sangue venne fatto passare al di fuori e i gas nella cavitazione, con un vantaggio notevole in termini di resistenza.

L’ossigenatore a bolle è costituito da una colonna di ossigenazione nella quale simultaneamente vengono immessi il sangue venoso e ossigeno che viene fatto gorgogliare. Questa tipologia di ossigenatore però presenta il grande pericolo di sviluppo di bolle a causa della presenza di albumina che funge da tensioattivo; per evitare fenomeni di emboli gassosi si utilizzavano dei sistemi debullanti (filtri) che prevedevano l’utilizzo di sostanze tossiche che prevengono la formazione di bolle, definite sostanze debullanti. Ciò che portò a non utilizzare più l’ossigenatore a bolle fu l’evidenza che a lungo termine le sostanze debullanti risultavano tossiche per l’organismo.

L’ossigenatore a membrana di silicone permette scambi di diffusione attraverso una membrana semipermeabile di gomma siliconata che separa completamente gas e sangue; questa metodica unisce una grande efficienza alla piccola dimensione (evitano la formazione di bolle diminuendo i rischi di embolia gassosa, i danni da esposizione ai gas sono ridotti)e alla tendenza di poter essere utilizzati per periodi prolungati di CEC in alcuni casi particolari.

Tutte le componenti della CEC sono collegate mediante dei tubi in PVC che devono soddisfare specifiche caratteristiche quali Inalterabilità fisica, Sterilità,  Atossicità, Apirogenicità, Biocompatibilità

La biocompatibilità è uno dei punti fondamentali su cui si stanno effettuando ancora ricerche e sperimentazioni al fine di ottenere strumenti sempre più efficaci nello svolgere la propria funzione; esempi di tali successi sono alcune tipologie di tubi per CEC (tra cui i più noti sono Trillium o Carmeda) la cui superficie emocompatibile, dovuta alla presenza di fosfatidilcolina, è progettata per ridurre attivamente la formazione di trombi o coaguli di sangue, come dimostrano le seguenti figure:

Prime volume, emodiluizione e protezione d’organo

I tubi della CEC sono riempiti da una soluzione liquida particolare che prende il nome di prime volume. Tale fluido, di solito formato da soluzioni cristalloidi come il ringher acetato, costituisce il volume necessario per riempire il circuito, evitando che all’interno dello stesso si possa formare o ci sia aria, e per impedire che ci sia una massa volumetrica più bassa di quella addizionale tra quella del paziente e quella del circuito (infatti se non ci fosse il prime volume si andrebbe in shock ipovolemico); deve inoltre soddisfare tre caratteristiche importanti:

  1. Non deve provocare alterazioni chimico-fisiche
  2. Non deve causare danni biologici
  3. Deve essere isotonico con il sangue (285±5 mOsm/l)

L’utilizzo del prime volume ha anche un’importante funzione di protezione d’organo: infatti provoca emodiluizione, evitando lo “sludging” periferico, cioè l’impilamento dei globuli rossi per aumento della viscosità. L’ematocrito viene infatti fatto scendere all’incirca al 25-27%, e questo esita in:

Vantaggi –> riduzione della viscosità, migliore perfusione dei capillari e perfusione d’organo

Svantaggi –> dipendenti dal grado di diluizione delle albumine e delle globuline:
Edema tissutale per riduzione del potere oncotico per quanto riguarda le albumine
Ipocaogulabilità per quanto riguarda le globuline

L’emodiluizione può essere di due tipologie:

  1. PARZIALE quando il prime volume è costituito da sangue e soluzioni cristalloidi e/o colloidali
  2. TOTALE quando il prime volume è costituito solo da soluzioni cristalloidi e/o colloidali

Un altro importante elemento di protezione d’organo, e anche di protezione dell’organismo in toto, è la preventiva eparinizzazione del paziente; questo processo si rende necessario in quanto il contatto tra il sangue del paziente e le superfici estranee del circuito della CEC attiva la cascata coagulativa. Per evitare questo, in sede pre-operatoria al paziente vengono somministrate 300 U.I./kg di eparina. Il livello di eparina va monitorato mediante test funzionali, quali l’ACT cioè l’Activating Clotting Time, e test quantitativi, come l’HPT cioè l’analisi della concentrazione dell’eparina. Un effetto collaterale dell’eparinizzazione è la trombocitopenia da ipersensibilità all’eparina detta anche HIT; a questa situazione si può ovviare con l’utilizzo della bivalirudina, un anticoagulante irreversibile estratto dal veleno delle sanguisughe, nello specifico la Irudo Officinalis.

Cardioplegia e protezione d’organo

Altro elemento di protezione d’organo, oltre ad essere una metodica essenziale e alla base dell’operazione chirurgica a cuore aperto, è la cardioplegia, metodica in grado di:

  • Arrestare rapidamente il cuore in diastole, in quanto in termini di azzeramento dell’attività metabolica si raggiungono valori intorno al 95% (se si bloccasse il cuore in sistole si avrebbe il cosiddetto quadro del “cuore di pietra” (stone heart), ovvero una contrattura di tutto il muscolo cardiaco che renderebbe difficoltosa se non impossibile qualsiasi operazione chirurgica)
  • Creare uno stato di quiescenza e garantire una protezione contro l’ischemia e il danno da riperfusione

Il tessuto miocardico, essendo particolarmente vulnerabile ad un insulto ischemico, andrebbe incontro a danno irreversibile nell’arco di 20 minuti. In questo modo i tempi di ischemia possono essere sensibilmente prolungati al punto che periodi di arresto di 3-4 ore vengono tranquillamente tollerati dai tessuti senza che vi sia la minaccia di un danno irreversibile. Si tratta fondamentalmente di una soluzione iperkaliemica, secondo una intuizione di Melrose nel 1955, che viene somministrata in ipotermia; la soluzione cardioplegica ipotermica aggiunge un ulteriore 4% di azzeramento metabolico oltre al valore che si ottiene dal blocco del cuore in diastole. Le tipologie di cardioplegia possono essere distinte in:

  1. Cardioplegia ematica
  2. Cardioplegia cristalloide-ematica
  3. Cardioplegia cristalloide

    strutture per la somministrazione di soluzione cardioplegica
    Strutture per l’infusione di soluzione cardioplegica

Esistono diverse strategie che permettono di somministrare la cardioplegia. E’ possibile servirsi dell’infusione:

  • Per via ANTEROGRADA
  • Per via RETROGRADA
  • Per via COMBINATA (ANTERO-RETRO)

 

Le soluzioni cardioplegiche, invece, sono distinte in:

  1. Soluzione di Custodiol. E’ la soluzione di scelta per la conservazione dell’organo espiantato, ma è stata anche impiegata come soluzione cardioplegica negli interventi cardiochirurgici complessi e che prevedono una lunga durata. L’uso di questo tipo di soluzione cardioplegica permette la protezione miocardica per almeno 180min. La composizione è di tipo intracellulare, con potassio e sodio a basse concentrazioni e calcio mantenuto a una concentrazione uguale a quella intracellulare. Inoltre contiene anche istidina/triptofano e chetoglutarato (HKT), che hanno il compito di inattivare la funzione cellulare grazie alla fuoriuscita di sodio e calcio (per l’azione dell’istidina). Il triptofano garantisce un’ulteriore protezione delle membrane cellulari e il chetoglutarato è un substrato importante per la produzione di energia anaerobica, utile sia per l’induzione cardioplegica sia per il ripristino della contrattilità cardiaca.
  2. Soluzione di Buckberg. Metodica ampiamente applicata che si basa sull’utilizzo del sangue quale veicolo per la somministrazione della cardioplegia. Il protocollo di utilizzo prevede tre differenti concentrazioni elettrolitiche specifiche per le fasi di induzione, mantenimento e riperfusione; la composizione della soluzione cardioplegica (B1, B2, B3) varia a seconda della fase di utilizzo e in generale contiene KCl, citrati, glucosio, sodio, potassio, fosfati, aspartato-glutammato, etc. Tutte e tre le soluzioni hanno un pH di 7,5-7,6. La soluzione è composta da sangue arterioso prelevato all’uscita dell’ossigenatore e miscelato con una soluzione cristalloide, in rapporto 4:1. Questa soluzione viene applicata negli interventi lunghi, su pazienti con funzione ventricolare bassa.
  3. Soluzione di St. Thomas. E’ la più diffusa nella pratica clinica, grazie alla sua facile preparazione, all’economicità, all’efficace protezione del miocardio dal danno ischemico e dall’avere una composizione prestabilita e costante. E’ una soluzione ionica e il suo effetto si basa sostanzialmente sulle variazioni delle concentrazioni extracellulari, che si traducono in un aumento di concentrazione del potassio (iperpolarizza la membrana cellulare e arresta il cuore in diastole) mantenendo uno stato di riposo elettrico di membrana. La soluzione è composta da sodio, potassio, calcio, magnesio, cloro, bicarbonato e il pH è di 7,8.

Monitoraggi durante l’intervento cardiochirurgico

Durante un intervento cardiochirurgico in cui è utilizzata una CEC, è necessario il monitoraggio di:

Funzione respiratoria, mediante EmoGas Analisi (EGA):
pH     7.35-7.45
pCO₂ 35-45 mmHg
pO₂    100-250 mmHg

Funzione Renale:
Diuresi 2ml/Kg/h

Flussi:
2.2-2.4 L/m²

Pressioni:
arteriosa                      60-100 mmHg
venosa centrale            0-10 mmHg
pressione linea arteriosa <350 mmHg

Temperature:
esofagea, rettale, sangue venoso, sangue arterioso, fonte di calore

ElettroCardioGramma, ECG:
I tempi dell’intervento con utilizzo di CEC sono codificati e ben stabiliti, sia al momento del collegamento alla macchina che a quello dello scollegamento.

Fase di collegamento

  1. Il cardiochirurgo provvede alla cannulazione arteriosa e venosa e alla connessione delle cannule con le linee corrispondenti; il perfusionista entra quindi in bypass e raggiunge il flusso arterioso teorico di 2.2-2.4 L/m² e la temperatura desiderata
  2. Il cardiochirurgo clampa l’aorta ascendente con conseguente sospensione del circolo coronarico, mentre il perfusionista infonde la soluzione cardioplegica
  3. Si procede all’esecuzione dell’intervento con cuore fermo ed esangue

Fase di collegamento

  1. Il cardiochirurgo declampa l’aorta con conseguente ripresa della perfusione coronarica e dell’attività cardiaca; al contempo il perfusionista ripristina la temperatura fisiologica e l’equilibrio cardiocircolatorio necessario per lo “svezzamento” del paziente dalla CEC
  2. Sospesa la CEC, il cardiochirurgo provvede alla decannulazione delle linee venosa ed arteriosa, mentre il perfusionista interrompe il bypass nel momento in cui i parametri emodinamici, elettrocardiografici ed emogasanalitici dimostrano che il cuore è in grado di sostenere da solo la normale circolazione.

Vantaggi e svantaggi della circolazione extracorporea

Naturalmente, l’utilizzo della CEC comporta risvolti positivi, come la riduzione del lavoro cardiaco, l’adeguata perfusione e ossigenazione periferica, il recupero del sangue, la protezione miocardica e tissutale e il riequilibro idro-elettrolitico.

Tuttavia sono anche presenti aspetti negativi, tra i quali si annoverano:

  1. Alterazioni del sangue circolante, in particolare riguardante il numero e la funzione delle piastrine e alterazioni fisiche, come l’emolisi, la citolisi leucocitaria e la rottura dei legami fisici delle macromolecole plasmatiche;
  2. Alterazioni dell’equilibrio idro-salino, per sovraccarico idrico in CEC dovuto al prime volume e alla cardioplegia;
  3. Alterazioni dell’equilibrio acido-base, per una eccesiva eliminazione di CO₂ a livello dell’ossigenatore e insufficienza di O₂ per scarsa perfusione periferica;
  4. Alterazioni della distribuzione dei flussi regionali, per cui riduzioni anche piccole della portata aumentano la percentuale dei flussi cerebrale e coronarico, e a riduzione della percentuale del flusso renale e del distretto splancnico con la possibilità di insorgenza di insufficienza renale o epatica.

A cura di: dr. Francesco Serafini, Medico Specializzando presso l’ospedale SS. Annunziata di Chieti

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